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''Con Obama l'America torna al centro''

Tra le priorità del presidente eletto: lotta ad al Qaeda, uscita dall'Iraq e conflitto arabo-israeliano

21 novembre 2008

"Con Barack Obama l'America non si sposterà a sinistra ma tornerà al centro, tornerà al mainstream, abbandonando l'estremismo degli anni di George W. Bush".
Assume i contorni di un ritorno al passato il 'change' che Obama porterà alla Casa Bianca, soprattutto in politica estera, secondo Michael Lind, storico, noto commentatore dei principali quotidiani americani e analista della New America Foundation, think tank che ha nel suo board of directors Eric Schmidt, presidente di Google e membro della squadra di transizione di Obama.
"Con l'estremismo delle posizioni dei neoconservatori, la presidenza Bush ha rappresentato uno strappo dalla politica estera americana, anche quella di Bush padre" ha spiegato Lind all'Adnkronos, a Roma per partecipare al convegno 'La politica estera del nuovo presidente'. "Sin dagli inizi l'amministrazione Bush ha attaccato tutte le organizzazioni che gli Stati Uniti hanno contribuito a creare" ha aggiunto, riferendosi all'insofferenza neocon per le Nazioni Unite. "Per molti versi l'amministrazione Obama sarà quindi il ritorno al mainstream, alla politica estera tradizionale americana, da Roosevelt in poi, che per gli europei è stata, forse a volte criticabile, ma sicuramente comprensibile, in un modo in cui quella di Bush non è stata", ha detto ancora l'autore di 'The American Way of Strategy: U.S. Foreign Policy and the American Way of Life'.

Per quanto riguarda i dossier, l'analista riconosce che le "priorità saranno per lo più le stesse: lotta ad al Qaeda, uscita dall'Iraq, il conflitto arabo-israeliano, con l'accento quindi sul Medio Oriente e l'Est Asiatico e l'Europa un po' trascurati, ma di questo gli europei dovrebbero essere contenti perché l'America si concentra su aree che rappresentano una minaccia". Per Obama un primo importante test delle relazioni atlantiche potrà venire dalla guerra in Afghanistan, "war of necessity" secondo Lind, perché necessaria a difendersi da al Qaeda, in opposizione alla "war of choice", la guerra intrapresa per scelta contro l'Iraq da Bush, nell'ambito di una tendenza avviata, secondo lo storico, da Bush padre con l'invasione di Panama nel 1989. E continuata anche ai tempi di Clinton nei Balcani.
Per Lind è del tutto "ragionevole che Obama chieda un maggiore contributo europeo in termini di risorse e truppe" alla guerra in Afghanistan, dal momento che "si può dire che l'Europa sia più minacciata degli Stati Uniti da al Qaeda". E che un eventuale ritorno dei talebani al potere in Afghanistan "sarebbe un disastro maggiore per gli europei che per gli americani", considerato l'obiettivo finale degli jhaddisti di istituire regimi teocratici nei Paesi arabi anche dell'area del Mediterraneo.

Ma allo stesso tempo la prospettiva che gli europei effettivamente si impegnino di più rischia di essere "irrealistica, considerata la difficile crisi economica". Crisi partita da Wall Street e diffusasi al resto del mondo, che ha fatto crollare l'altro pilastro, oltre alla 'war of choice' su cui secondo Lind si è retto il mondo del dopo Guerra Fredda: quello che chiama il 'Washington consensus', cioè l'idea che il crollo dell'Unione Sovietica non ha portato alla semplice sconfitta del comunismo da parte del capitalismo ma il trionfo del capitalismo anglo-americano del libero mercato. E su questo fronte l'amministrazione Obama si troverà a gestire una situazione molto delicata, barcamenandosi tra Wall street e Main street, come si dice in America. "La maggior parte dei bail out sono giustificati - ha spiegato Lind riferendosi al pacchetto di salvataggio di 700 miliardi di dollari varato dal Congresso e a quelli che si prospettano per l'industria automobilistica - se sono fatti nel modo corretto accompagnando al salvataggio di Wall Street e delle corporation quello dei singoli proprietari di casa, altrimenti rischiamo una reazione estremamente populista contro il mondo del business ed il governo da parte di un'opinione pubblica sempre più arrabbiata".
A chi in Europa critica la prospettiva di un intervento governativo per le "tre grandi di Detroit", Lind afferma: "Non so chi sia più ipocrita, se gli Stati Uniti per le loro azioni o l'Europa per le parole". Ricordando i pesanti interventi pubblici in favore della grande industria europea, sostiene di "non credere che gli Stati Uniti dovranno fare necessariamente la stessa cosa", riconoscendo che comunque l'idea di un intervento diretto dello Stato cambia "tutto il dibattito interno da noi, con la nostra principale industria, abituata alle regole del libero mercato, disorientata, confusa e in un certo senso screditata". [Adnkronos]

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21 novembre 2008
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