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BURRI E FONTANA / MATERIA E SPAZIO

La Fondazione Burri Opera Ultima

10 novembre 2009

di Chiara Sarteanesi

La Fondazione Burri è stata istituita nel 1978 per volontà di Alberto Burri. Fin dagli anni sessanta il pittore manifesta il desiderio di donare l'intera col­lezione alla città natale a condizione che si indichi uno spazio adeguato allo scopo. L'artista ha idee ben precise sia riguardo alle caratteristiche dell’architettura che alla collocazione in essa delle opere. La ricerca della sede non è facile e richiede molto tempo prima che Burri la individui nel Palazzo Albizzini. Altro tempo passa prima che la stessa sia messa in grado, giuridicamente e dal punto di vista strutturale, di accogliere la Fondazione ed esporre le opere.
Dal 1981 il Palazzo Albizzini è sede della Fondazione. Questi i punti nodali dello statuto: "La Fondazione non ha scopo di lucro. Ha lo scopo di tutelare il diritto d'autore e la circolazione nonché la utilizzazione delle immagini dell'opera; di promuovere studi sull'opera dell'artista e sulla sua collocazione nel tempo, nonché di gestire al meglio le Collezioni della Fondazione. E ciò al fine di incrementare l'attività di coloro che, nel mondo, si dedicano allo studio e alla conoscenza dell'arte, della quale l'opera di Alberto Burri è espressione fondamentale."
Presso la sede del Palazzo Albizzini sono state collocate anche la biblio­teca, l'archivio e la fototeca. La prima è ricca di pubblicazioni relative all'ar­te contemporanea, in gran parte ereditate dall'artista. Anno dopo anno nuove acquisizioni hanno arricchito la biblioteca di altri titoli. Ulteriori arric­chimenti derivano da scambi con importanti istituzioni d'arte contempora­nea, con le quali la Fondazione ha continui rapporti (Castello di Rivoli, Galleria Comunale d'Arte Moderna di Bologna, Stàdtische Galerie im Lenbachhaus di Monaco di Baviera, Museion di Bolzano, Museo Pecci di Prato, Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Fondazione Lucio Fontana etc.), e in parte da privati che generosamente hanno donato il loro patrimonio librario.
L'archivio riguarda l'attività espositiva del Maestro. La fototeca raccoglie tutta la documentazione iconografica riguardante l'opera di Alberto Burri. La Fondazione organizza conferenze di arte antica e contemporanea in col­laborazione con autorevoli istituzioni italiane ed estere (come la Pinacoteca di Brera, la Tate Gallery di Londra, l'Accademia di Francia, l'Università di Parigi), stages, convegni, corsi di aggiornamento per insegnanti di ogni ordine e grado, in collaborazione con I'IRRSAE e con il Comune di Città di Castello.
Sono stati pubblicati il catalogo sistematico di tutta la produzione del­l'artista, i cataloghi delle due sedi espositive e libri per la diffusione delle stesse.
La Fondazione inoltre predispone mostre antologiche sull'artista in Italia e all'estero su richiesta di istituzioni rilevanti a livello nazionale e interna­zionale, con le quali collabora fattivamente ad ogni fase della progettazio­ne della mostra, del catalogo e dell'allestimento. Lo scopo che si propo­ne è di rappresentare l'immagine dell'artista nel modo migliore anche in funzione dello spazio che dovrà accogliere le opere. Contemporaneamente si preoccupa dell'incolumità delle stesse e della loro conservazione, sia durante gli spostamenti che per tutta la durata delle manifestazioni.
Esercita un controllo capillare su eventuali pubblicazioni e website relativi ad esposizioni o riguardanti l'artista in genere, realizzati da terzi. Predispone expertises su opere attribuite all'artista per stabilirne l'autenticità.
Nelle sale del Palazzo Albizzini è stata collocata la prima delle due espo­sizioni permanenti, aperta al pubblico dal 1981, che comprende 130 opere dal 1948 al 1989. Insieme all'altra sede espositiva degli Ex Seccatoi, inau­gurata nel 1990, che ospita 128 opere dal 1970 al 1993, costituisce la raccolta più esaustiva sull'artista.
L'eccezionalità di questa realtà museale è data dal fatto che può consi­derarsi l'ultima straordinaria creazione dell'artista. A Burri non si deve sola­mente la scelta delle architetture, ma i principi che hanno portato al loro recupero per fini espositivi, la scelta delle opere e la loro collocazione. Pur essendo due tipi di architettura diversi per la loro primigenia funzione (un palazzetto della seconda metà del XV sec. e un capannone industriale pre­fabbricato), il criterio per il loro restauro risulta lo stesso: massimo riguar­do delle rispettive peculiarità, in modo che mantengano la loro dignità, e in qualunque momento possano tornare alla loro "destinazione d'uso iniziale" o trovare impieghi diversi. L'allestimento è sobrio, razionale, funzionale all'esposizione delle opere, disposte con grande misura negli ampi spazi, in modo che ci sia rapporto reciproco fra queste e l'architettura.

PALAZZO ALBIZZINI - L'edificio apparteneva alla famiglia degli Albizzini di ascendenza fiorentina. Dei suoi componenti si hanno notizie già dal sec. XIV; fin da allora, infatti, sono stati protagonisti di incarichi di rilievo nelle vicende storiche della città. Fu probabilmente ser Filippo di Lodovico ad assumere in patronato nel 1504, per la cappella di famiglia, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, ora alla Pinacoteca di Brera a Milano.
Il fabbricato, acquisito dalla Cassa di Risparmio di Città di Castello, ha subito un accurato restauro iniziato nel 1979, terminato nel 1981 e con­segnato in comodato gratuito alla Fondazione. I lavori sull'architettura, già in condizioni di avanzato degrado, sono stati condotti dagli architetti Alberto Zanmatti e Tiziano Sarteanesi assistiti dall’ingegner Tosti. E' stato possibile attuare il recupero spaziale originale evi­tando l'introduzione di invasivi elementi a vista, che avrebbero potuto compromettere i delicati equilibri espositivi. Naturalmente, come già detto, sotto la preziosa supervisione dell'artista, che ha costantemente vigilato sul lavoro. Il ripristino degli intonaci con calce e sabbia lucidati con cazzuola, ha reso all'architettura il suo aspetto originale nel rapporto con il grigio degli elementi in pietra, ricorrenti nella chiara definizione dello spazio. L'applicazione di filtri U. V. alle finestre preserva le opere dall'esposizio­ne dei raggi solari e dal conseguente degrado cromatico; l'illuminazione artificiale, realizzata con lampade ad irradiazione indiretta con intensità regolabile, sala per sala, garantiscono ulteriormente la protezione della temperatura dei materiali delle opere esposte.
La Collezione, aperta al pubblico nel dicembre 1981, comprende Catrami, Muffe, Sacchi, Gobbi, Ferri, Legni, Plastìche, Cretti, Cellotex, parte della produzione grafica, bozzetti per scenografie e per teatri; è ordi­nata in ventidue sale con successione cronologica. Ogni quadro rappre­senta una tappa fondamentale del "viaggio" percorso dall'artista nel mondo della materia e nel panorama artistico internazionale. La maggior parte delle opere esposte costituisce un precedente per alcuni artisti esponenti del New Dada, della Pop Art, del Nouveau Réalisme e del Minimalismo.
Nero 1 del 1948, che apre la rassegna, è isolato al centro di una inte­ra parete e, come un manifesto programmatico, anticipa e riassume innumerevoli aspetti della pittura di Burri. Dalla lettura attenta dell'opera, si nota la presenza del catrame come materia colo­rante, sostanzialmente monocroma, come saranno alcune opere di poco posteriori dello stesso Burri. Il nero opaco e il nero lucido, il nero liscio e il nero rugoso, sono motivi che saranno ampiamente sviluppati nei cicli neri degli anni '80 e '90 (collocati presso gli Ex Seccatoi). Una parte in rilievo con delle spaccature anticipa i cretti della fine degli anni sessanta. Ci sono anche due macchie di colore, molto discrete, una rossa, l'altra azzurra, colori che si ripeteranno. In Nero 1, in particolare, è presente un altro elemento che, al contrario di quelli elencati finora, è costante in tutte le opere del maestro, indipenden­temente dalla materia e dal periodo: la struttura essenziale e l'ordine interno alla composizione; ciò rende il primo quadro di Burri uguale all'ultimo, come spesso egli amava ripetere.
Nella stessa sala sono esposti due Catrami pubblicati dallo studioso di Picasso, Zervòs, in "Cahiers d'Art" nel 1950 che rappresentano il primo riconoscimento dell'ar­tista da parte della critica internazionale.
Segue il primo Sacco del 1950, nel quale Burri sulla tela del sacco mescola il colo­re con spessori materici. I Sacchi presenti nelle altre sale, di poco poste­riori, non presentano più la sovrapposizione del colore e la tela viene com­pletamente esautorata dal suo compito di supporto, per acquisire pari dignità e spazio nei confronti del colore. In SZ1 del 1949 è presente il motivo della bandiera americana, ricorren­te nella pittura di Jasper Johns a partire dal 1955.
Nei due dipinti Gobbi, rispettivamente del 1952 e del 1954, presenti nel Palazzo Albizzini, la tela è spinta in avanti da un'intelaiatura metallica posta a tergo; con essi l’artista fissa un'innovazione sostan­ziale nella struttura del quadro che ha influito sulle ricerche delle "Shaped Canvas" delle avanguardie americane.
Grande Bianco del '52 è uno dei tre grandi sacchi che Rauschenberg vide, nel 1953, durante una visita allo studio di Burri; ed è significativo che l'anno seguente il pittore americano crei i suoi primi Combing Paintings. Questo dipinto ha un impianto che, nella suddivisione della superficie in due parti proporzionali fra di loro, richiama idealmente le regole della "sezione aurea", applicate da molti pittori del Rinascimento, come rapporto ideale di due grandezze: ciò è riscontrabile in molte altre opere di Alberto Burri.
Legni, ferri, plastiche, sono le materie di cui Burri si serve, dalla metà degli anni '50. Su di esse Burri agisce con il fuoco, "pennello" col quale l'artista evoca "immagini" naturalmente astratte, molto drammatiche in alcuni casi, poetiche in altri.
I cretti presenti sin dalle prime opere, ma limitati a piccole zone, dalla fine degli anni '60 acquisiscono piena autonomia. Realizzati con un impa­sto di caolino e vinavil, mostrano una superficie con screpolature più o meno profonde, provocate dall'artista che ne calibra gli ingredienti, secon­do un progetto preciso. Nelle sale del Palazzo Albizzini sono esposti inoltre i boz­zetti dei cretti di grandi dimensioni, realizzati nel 1977 per essere collocati rispettivamente nel parco di sculture dell’Università di Los Angeles e nel Museo di Capodimonte a Napoli, ognuno 5 metri di altezza e 15 di lunghezza.

Un discorso a parte merita il bozzetto per il cretto realizzato a Gibellina, piccolo centro del Belice distrutto da un sisma nel 1968. Burri chiamato come altri artisti per realizzare un'opera da donare alla nuova città, rico­struita a 20 chilometri dal sito originale, decide invece di intervenire sui detriti della città vecchia. Stende una sorta di sudario di cemento bianco, che ingloba le macerie: crea un Grande Cretto (circa 12 ettari) den­tro le cui spaccature si cammina. Queste, alte due metri, ricalcano la pla­nimetria della città. L’artista ha reso eterna una città altrimenti perduta, ricordando l'evento tellurico che ne ha provocato la distruzione.
Nella sala dei cretti c’è anche una scultura, Grande Ferro del 1980, monumentale "cretto" realizzato in ferro, alta 9 metri, che delu­de profondamente chi, avendo visto solo i quadri, pensa che il risultato finale dei cretti sia dovuto più al caso che non all'artista.
I Cellotex, realizzati con pannelli industriali degli anni '70, hanno una con­sistenza materica granulosa che, insieme alla tonalità calda del colore simi­le a quella dei sacchi, permettono al pittore di "dipingere" immagini ecce­zionali e solenni per il loro impianto costruttivo. L'artista fa uso del cellotex come supporto ai quadri già alla metà degli anni '60, successivamente, ne scopre le potenzialità estetiche e le svela, come era già avvenuto con la tela.
Non tutti conoscono il Burri scenografo: piccoli bozzetti di teatro mostra­no le scenografie realizzate per l'Avventura di un Povero Cristiano di Ignazio Silone (1969), per il balletto November Steps (1972) e per l'opera lirica Tristano e Isotta di Wagner (1975).
La grafica esposta in parte è realizzata con i metodi tradizionali: serigra­fia, acquaforte, acquatinta, calcografia; in parte realizzata con metodi total­mente innovativi, che prevedono l'intervento diretto dell'artista, escluden­do quello dello stampatore.

EX SECCATOI DEL TABACCO - La seconda sede espositiva, in ordine di tempo, è costituita da un com­plesso industriale, con una superficie coperta di circa 7000 mq. e un volume di 128000 m3. Sorto fra la fine degli anni '50 e la metà degli anni '60 per l'essiccazio­ne del tabacco tropicale, prodotto di una coltivazione particolare, aveva permesso il reimpiego di molto personale, altrimenti disoccupato per l'in­troduzione nell'industria di sistemi di meccanizzazione. L'attuale destinazione ha salvato tali strutture architettoniche da sicura distruzione. Lo stabilimento aveva già avuto impieghi diversi. Nel 1966, in seguito all'alluvione che aveva colpito Firenze, la Fattoria Autonoma Tabacchi (allo­ra proprietaria dell'immobile) si dimostrò attenta e sensibile a valori cultu­rali relativi non solo alla città ed al suo territorio ma all'umanità, contri­buendo al recupero del patrimonio librario danneggiato dall'alluvione. Il personale dello stabile e le attrezzature tecniche furono messi a disposi­zione per il prosciugamento dei preziosi libri provenienti dalla Biblioteca Nazionale Centrale, del materiale cartaceo del Tribunale Civile e Penale e della Società editoriale "La Nazione".
Negli anni ‘70 la coltivazione del tabacco, non più redditizia, venne ces­sata e queste strutture trascurate. Risale al 1978 la concessione in uso gratuito all'artista di uno dei tredici capannoni come studio. Nel 1979 fu aperto per la presentazione alla critica ed al pubblico del primo ciclo pitto­rico denominato il Viaggio, qui progettato e realizzato. L'acquisto di tutto il complesso da parte della Fondazione Burri, reso possibile nel 1989 grazie ad una donazione dell'artista, ha dato l'avvio al progetto generale di recu­pero. L'adattamento museale è stato curato dagli architetti Alberto Bacchi e Tiziano Sarteanesi in stretta collaborazione con Alberto Burri. Si deve all'artista stesso l'intuizione di queste architetture dagli echi gotici, come spazi ideali per i Cicli, di grandi dimensioni, che egli realizza dalla fine degli anni settanta. Il colore nero che Burri ha deciso per l'esterno è la componente unificante della struttura muraria che si salda in un solo ele­mento geometrico.
Lo spazio espositivo, inaugurato nel 1990, ospita, come già ricordato 128 opere, ulteriore donazione dell'artista, realizzate dal 1970 al 1993 e comprendenti, oltre ai cicli pittorici, anche cinque sculture monumentali, collocate all'interno ed all'esterno degli Ex Seccatoi. La distinzione convenzionale delle tre disci­pline, pittura, scultura e architettura, si annulla in un'unica manifestazione espressiva.
Burri dalla fine degli anni settanta non progetta più l'opera singola, ma un insieme di opere che costituiscono un'unità, e come tale inscindibile: il Ciclo. Questo concetto, nato primariamente per l’opera grafica, già alla fine degli anni '50, passa in pittura alla fine degli anni '70 per una sua esigenza intrinseca. Da questo momento, infatti, le adesioni di Burri a mostre col­lettive si fanno sempre più rare. Per quelle personali, crea opere pensate appositamente per spazi prescelti fra i tanti proposti. La sua preferenza va in genere ad architetture industriali abbandonate, spazi genericamente ampi, per i quali inventa, di conseguenza, pannelli di grandi dimensioni. Forse lavorando nel "capannone studio", già pensava anche alla loro defi­nitiva sistemazione proprio dentro gli Ex Seccatoi, II Viaggio del 1979, ideato per l'Haus der Kunst di Monaco, composto di dieci pannelli, riprende in considerazione i materiali già usati, ma rivisi­tati con la poetica del momento. Significativamente manca il Sacco. Sono presenti il Ferro e la Plastica trasparente, dove per la prima volta l'artista non è intervenuto con la fiamma: straordinaria per la nitidezza del segno che delimita il cerchio dentro il quadrato. Seguono il Cretto, il Cellotex colorato; tre monocromi, bianco, nero, cellotex; l'acciaio inossidabile, splendido per l'essenzialità. C'è poi il Cellotex con un quadrante in foglia d'oro che costituisce l'anello di congiunzione fra le opere precedenti e il ciclo Nero e Oro del '93, esposto nell'ultimo capannone che conclude la grande vicenda poetica di Burri: con l'apertura all'astrazione dell'oro, che rimanda ai fondi d'oro bizantini e rinascimentali, fa pensare più ad un inizio che ad una fine. Orti del 1980-‘81, esposto nel secondo capan­none, è stato creato per la sede espositiva situata sopra la chiesa di Orsanmichele a Firenze, ne faceva parte anche una scultura attualmente collocata presso la Rocca Paolina di Perugia, donazione dell'artista. Il ciclo che segue, Sestante del 1982, di cui fa parte anche, la grande scultura situata sul prato esterno, fu esposto a Venezia nel 1983 presso gli ex Cantieri Navali della Giudecca, spazio scelto da Burri e da allora divenuto centro espositivo. In proposito scrive Maurizio Calvesi: "Nella serie (...) Sestante (...) tutta affidata al colore, Burri, il Grande Astratto, rovescia la propria sfida: torna al pennello quando questo ormai sembra messo fuori causa dal dilagare delle ricerche extra - pittoriche, che nella scia delle sue ricerche avevano preso il sopravvento a livello internazionale. Straordinari equilibri collegano una zona di colore all'altra, ogni zona di colore ha il suo peso, ma anche una sua agilità. Un'immobile fissità ma anche una poten­zialità dinamica" (M. Calvesi, Percorso di Burri, in Burri, Toyota 2000, catalogo della mostra, p.143).
Il ciclo Rosso e Nero del 1984 è una sequenza di tredici opere, imper­niate sui valori del rosso e del nero, con la complicità della luce che cam­bia continuamente gli equilibri fra il nero opaco e il lucido e fa comparire forme invisibili. Rispetto ai cicli precedenti si registra una diminuzione delle dimensioni dei quadri, comprensibile solo conoscendo la sede museale per la quale Burri lo ha realizzato: la Galerie des Ponchettes di Nizza.

Seguono tre capannoni dedicati al nero: l'Annottarsi (1985-‘87), Non Ama il nero del 1988, i Grandi Neri degli anni '90. L'atmosfera creata dalla sovrapposizione del nero su nero è avvolgente e la sintesi assoluta delle opere evoca una dimensione cosmica che induce alla meditazione. Ognuno di questi cicli è portatore di valori originali e completamente diver­si. E' straordinario e impensabile credere che sia possibile dipingere, con tale inarrestabile capacità creativa ed evocativa, con un solo colore.
L'ultimo capannone espone, da un lato, Oro e Nero (1992-93), di cui si è parlato, dall'altro la serie dei Metamorfotex (1991). Progettato per Praga, è un omaggio a Kafka. Il ciclo propone la metamorfosi che si attua in nove momenti, rappresentati dalle nove opere connesse le une alle altre in sequenza cinematografica. Il modulo si trasforma da tutto cellotex a tutto nero.
Nel prato esterno campeggiano le tre monumentali sculture, Ferro K e Grande Ferro Sestante del 1982 e Ferro U del 1990.

- www.fondazioneburri.org

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10 novembre 2009
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