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Chei i boss mafiosi entrino al Quirinale

Processo Stato-mafia. Sì alla presenza di Riina e Bagarella all'udienza di Napolitano al Colle

08 ottobre 2014

Dopo una serie di riunioni in Procura, dai pm è arrivato il parere favorevole: si ritiene serio il rischio che un no alla richiesta dei capimafia Totò Riina e Leoluca Bagarella e, da ieri, dell'ex ministro Dc Nicola Mancino, di assistere alla deposizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al processo sulla trattativa Stato-mafia, possa far saltare il dibattimento.
Le norme parlano chiaro. Ed è per questo che i magistrati che rappresentano l'accusa, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, hanno dato parere favorevole alla presenza dei tre imputati. Precisando chiaramente che i due padrini potrebbero, qualora la corte accogliesse le loro istanze, essere presenti solo in videoconferenza, mentre a Mancino sarebbe consentito andare al Quirinale.

Al momento sono solo tre gli imputati che hanno fatto sapere di voler partecipare all'udienza, fissata per il 28 ottobre al Quirnale. Tacciono gli altri, che ancora non si sono pronunciati sull'intenzione di ammettere solo pm e difensori, resa nota alle scorse udienze dal collegio.
La questione, dunque, diventa sempre più spinosa. Perché se è vero che la corte ha richiamato, in assenza di una norma specifica, l'articolo del codice di procedura penale che disciplina il caso del testimone impedito ad andare in udienza, norma che esclude la presenza degli imputati, è anche vero che la legge obbliga il giudice ad ammettere l'imputato che chieda di partecipare. L'eventuale esclusione potrebbe determinare la nullità dell'assunzione della prova - in questo caso la deposizione del capo dello Stato - o, secondo, una parte della giurisprudenza, dell'intero processo. Ed è proprio questa l'argomentazione seguita dalla Procura che, richiamandosi al codice e ai principi generali sulla partecipazione degli imputati, e temendo di minare il dibattimento fornendo lo spunto per un'eccezione di nullità in appello, ha dato un sofferto parere favorevole alle richieste dei due boss e di Mancino.

Molto probabilmente il collegio, per bocca del suo presidente, Alfredo Montalto, si pronuncerà sulla questione all'udienza di domani. Ma è chiaro che sulla decisione dei giudici, oltre alle considerazioni normative, peseranno anche ragioni di opportunità: è intuibile l'imbarazzo che creerebbe la presenza al Quirinale, seppure attraverso il collegamento in videoconferenza dal carcere, dei boss Totò Riina e Leoluca Bagarella, entrambi, peraltro, con diritto di intervenire in ogni momento per rendere dichiarazioni spontanee.

Comprensibili quindi le perplessità che si registrano al Quirinale sulla vicenda: dubbi che vanno al di là della persona di Giorgio Napolitano - che infatti testimonierà - ma che investono le garanzie e le prerogative del capo dello Stato, nonché l'immagine dell'istituzione, come d'altronde si evince dalla clamorosa possibilità che due boss stragisti possano in qualche modo interagire con la massima carica dello Stato. Preoccupazioni che già da giorni si registravano al Quirinale e che la richiesta di Nicola Mancino (motore involontario del coinvolgimento di Loris D'Ambrosio nella vicenda), ex presidente del Senato, non può che avere confermato.

Ma su cosa dovrà deporre il capo dello Stato? Al centro della testimonianza, richiesta dalla Procura e circoscritta dai rigidi paletti fissati dai giudici, ci sono i timori espressi a Napolitano dal suo ex consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, poi morto, su episodi accaduti tra il 1989 e il 1993 riconducibili, secondo i magistrati, proprio alla trattativa Stato-mafia.
Il Capo dello Stato lo scorso novembre aveva inviato una lettera al Presidente della Corte nella quale diceva di non aver avuto "ragguagli" o "specificazioni" da D'Ambrosio su quei timori e, pertanto, di non avere "da riferire alcuna conoscenza utile al processo". Una valutazione che il collegio non ha ritenuto di per sé sufficiente a evitare la deposizione. Non si può escludere il diritto delle parti di chiamare un testimone su fatti rilevanti per il processo solo perché questi ha escluso di essere informato sui fatti stessi, è stata in sostanza l'argomentazione seguita dalla corte. Da qui la decisione di andare avanti con la citazione.

Alla deposizione del Capo dello Stato vorrebbero partecipare anche i giornalisti. E così l'Ordine di Sicilia ha chiesto alla corte che "i cronisti vengano messi in condizione di seguire la testimonianza, senza filtri e versioni riferite dai presenti, che - anche involontariamente - potrebbero risultare parziali e condizionanti, specie in un'occasione così importante".

Critico con la decisione della Procura è il Partito Democratico, con il presidente dei senatori, Luigi Zanda, che (al pari di Anna Finocchiaro) dice di "non comprenderne il significato, né processuale né istituzionale", mentre i deputati Federico Gelli ed Ernesto Magorno parlano di "una grave caduta di stile". Ancora più netto il giudizio del presidente del gruppo Pd della camera, Roberto Speranza: "Vedo accostare il nome del Presidente della Repubblica a quello di due capi mafia. È inaccettabile. Ho sempre rispettato la magistratura, ma sinceramente penso si sia superato il segno".
Critiche anche da Ncd: "A prescindere da valutazioni imperscrutabili auspichiamo che all'Italia e alle sue istituzioni sia risparmiato lo sfregio di due capi dell'anti-Stato presenti seppur virtualmente alla deposizione del Capo dello Stato", così Gaetano Quagliariello, coordinatore nazionale di Ncd. E Fabrizio Cicchitto: "La Procura di Palermo non ci sorprende ma questo parere ha l'evidente risvolto di una autentica provocazione che ci auguriamo non verrà raccolta dalla Corte di Assise".

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08 ottobre 2014
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