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Dal rifugio del Mend ieri il secondo contatto con i parenti dei tre tecnici italiani dell'Eni rapiti in Nigeria

29 dicembre 2006

I tre tecnici italiani dell'Eni, tenuti in ostaggio in Nigeria dal sette dicembre scorso, ieri hanno potuto nuovamente telefonare alle famiglie.
Sono trascorsi quasi venti giorni da quando il Movimento per l'emancipazione del Delta del Niger (Mend), attaccando l'impianto che l'Agip gestisce nello stato di Bayelsa, sul delta del Niger, ha sequestrato Roberto Dieghi, Cosma Russo e Francesco Arena, quest'ultimo manager di Gela (CL) della Swamp area, insieme al collega libanese Imad Saliba.
Ieri mattina, quindi, per la seconda volta in due giorni, i tre tecnici italiani hanno chiamato i loro parenti: ''Non preoccupatevi per noi. Stiamo bene''.

L'altro ieri l'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni, era volato in Nigeria per incontrare il presidente della repubblica Olusegun Obasanjo, per quello che è stato definito ''un colloquio cordiale''. ''Abbiamo chiesto alle autorità nigeriane di procedere in ambito negoziale per la liberazione dei sequestrati, evitando qualsiasi tipo di intervento armato. Il presidente Obasanjo - è scritto nella nota dell'Eni - si è detto convinto di una prossima, positiva soluzione del caso''.
L'Unità di crisi della Farnesina ha ribadito che proseguirà per tutto il tempo necessario l'impegno utile per ottenere la liberazione dei tre ostaggi. Ma sulla possibile data del rimpatrio dei connazionali, il responsabile dell'Unità Elisabetta Belloni ha detto: ''Ci vorrà tutto il tempo necessario''.

Il 23 dicembre scorso, con una telefonata al quotidiano ''il manifesto'', Francesco Arena aveva chiesto al governo e alla compagnia di accelerare i tempi del negoziato con il Mend. Il gruppo separatista nigeriano ha già rifiutato il pagamento di un riscatto. Il Mend sostiene che il rilascio degli ostaggi è legato alla liberazione di alcuni attivisti politici detenuti nelle carceri della Nigeria.

''Italia, tiraci fuori da qui''
di Stefano Liberti (il manifesto, 24 dicembre 2006)

«Per favore fate pressioni sul governo italiano e sulla nostra compagnia perché ottengano la nostra liberazione al più presto». La voce di Franco Arena arriva distante dalla linea telefonica, disturbata da alcuni fischi sullo sfondo. Ma alla fine il suo appello - ripetuto diverse volte - si sente chiaramente: «Dite alla nostra compagnia di darsi una mossa».
Ieri sera, intorno alle 23, il manifesto ha potuto parlare con i quattro tecnici dell'Agip-Eni - i tre italiani Franco Arena, Roberto Dieghi, Cosma Russo e il libanese Imad Saliba - tenuti in ostaggio dal 7 dicembre scorso dai ribelli del Movement for the Emancipation of Niger Delta (Mend). In quella che il portavoce del Mend, Jomo Gbomo, ha definito «l'ultima telefonata per quest'anno», i quattro hanno voluto rassicurare le proprie famiglie e al contempo esprimere la propria preoccupazione per il prolungarsi del sequestro.
In una conversazione durata circa un quarto d'ora - nel corso della quale la linea è caduta diverse volte e diverse volte è stata ripresa - i quattro ostaggi hanno ripetuto la stessa identica frase: «Fate tutto il possibile affinché ci tirino fuori di qua. Siamo stanchi». Tutti e quattro hanno esortato l'Agip-Eni e il governo italiano a darsi una mossa e a tirarli fuori da lì. «Sono 18 giorni che siamo qua, se le cose vanno per le lunghe potrebbe anche succedere qualcosa», ha detto Roberto Dieghi. Anche Imad Saliba - il cittadino libanese - ha chiesto di contattare il suo governo e la sua famiglia. «Per favore, fatto tutto quanto è in vostro potere per rendere il più rapido possibile il nostro rilascio», ha detto.

Gli ostaggi hanno tutti affermato di essere trattati benissimo. «I rapitori sono persone squisite, è come stare in un hotel a cinque stelle», ha raccontato addirittura Arena. Ma allo stesso tempo affermano di essere tenuti tagliati fuori dal mondo, di non avere alcuna comunicazione con l'esterno. «Ci hanno fatto la concessione di portarci qui per fare questa telefonata», ha continuato Arena. Quanto al luogo dove sono detenuti, «siamo in mezzo alla giungla», ha detto Cosma Russo.
Il più anziano dei quattro - il 64enne Roberto Dieghi, contrattista della Nigeria Agip Oil Company - ha lamentato solo un po' di mal di schiena e ha detto che, nel giro di quattro giorni, avrebbe esaurito le pillole per la pressione alta. Ma per il resto, anche lui ha voluto mandare un augurio di buon Natale alla sua famiglia e ha voluto rassicurarli sul suo stato di salute.
Il più loquace dei quattro è stato Franco Arena, il manager della Swamp area presa d'assalto il 7 dicembre al momento della cattura. Il 52enne tecnico di Gela ha voluto infatti ripetere a più riprese la sua esortazione al governo italiano e all'Agip.
Tutti e quattro gli ostaggi hanno detto di non saper nulla di trattative in corso e, anzi, hanno chiesto notizie su eventuali negoziati in corso per la loro liberazione. Il ministero degli esteri, contattato dopo la telefonata, ha detto testualmente: «Stiamo lavorando, da parte della Farnesina e dall'Agip. La priorità è la loro sicurezza. Ma ci troviamo in una fase estremamente delicata».
I quattro hanno detto di essere rimasti tutti i giorni del loro sequestro «nello stesso posto nella giungla». «Ci hanno portati qua solo per telefonare perché nel posto dove ci troviamo non c'è campo», ha sottolineato Dieghi.

È in questo nascondiglio segreto che l'altro ieri i quattro sono stati raggiunti da un giornalista nigeriano. Sunny Ofili, direttore giornale on-line The Times of Nigeria, ha potuto incontrare i quattro per qualche ora e parlare con loro (leggi). Li ha trovati in buona salute, ma stanchi e con la barba lunga di giorni. Il giornalista non li ha trovati particolarmente impauriti - addirittura ha raccontato che uno dei rapitori scherzava con Dieghi, chiamandolo «Sir Roberto». Li ha tuttavia descritti provati dall'esperienza della cattività, dal fatto di dormire per terra e di mangiare solo riso e spaghetti. Probabilmente, ha aggiunto, i quattro soffrono per le difficili condizioni climatiche e ambientali della prigionia. «Il luogo dove li tengono è a circa un'ora di barca da Port Harcourt - racconta ancora Ofili - nel mezzo della foresta di mangrovie. È un posto molto umido e abbastanza insalubre».

 

 

 

 

 

 

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29 dicembre 2006
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