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La Calabria vuole il Ponte, per gli imprenditori siciliani serve a poco

Riuscirà il Ponte ad avere un effetto virtuoso a Nord di Scilla e a Sud di Cariddi?

05 febbraio 2003

«Fare il Ponte».
Fra politici, sindacalisti, amministratori calabresi è questa l’opinione prevalente.

Il Ponte di Messina come riscatto, resurrezione. O ultima carta.
Riuscirà il Ponte, quando ci sarà, ad avere un effetto virtuoso a Nord di Scilla e a Sud di Cariddi?

Lo stato dei grandi sistemi infrastrutturali del Mezzogiorno mostra strozzature e sprechi piccoli e grandi.
La Regione Calabria spende 140 miliardi di lire all’anno per favorire le linee private dei bus.
In provincia di Reggio, però, nessuno ha mai visto né una palina, né una panchina, né un gabbiotto: le fermate sono ''a memoria''.

L’inchiesta giudiziaria sull’A3, la famigerata Salerno-Reggio, ha confermato quello che ogni automobilista italiano che l’abbia imboccata ha pensato, oscillando in curve che non dovrebbero esistere e imprecando in code causate da cantieri deserti: l’A3 è figlia della mafia.

In Sicilia, le cose non vanno meglio.
L’autostrada Palermo-Messina non è mai stata completata.
La parte sud-orientale dell’isola, da Catania a Siracusa a Ragusa, la più vivace economicamente, non ha autostrada. Per gli aeroporti, cinque milioni di persone sono affidate allo scalo di Palermo e alla benevolenza dell’Etna verso le piste catanesi di Fontanarossa.

La Legge-obiettivo stanzia per le grandi opere strategiche del Sud 40 miliardi di euro (il 52,5% del totale nazionale). Era ora, perché, come ricorda il rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno, nel 2001 gli investimenti in opere pubbliche a Nord hanno registrato un incremento del 4,8% e a Sud una diminuzione del 4,1%.

Questi sono i grandi numeri.
La realtà quotidiana di un’impresa del Sud la si percepisce quando si va a Caltanissetta, Sicilia centrale, a parlare con Salvatore Lo Cascio: titolare di una fabbrica di serbatoi per combustibili con 80 dipendenti, ha realizzato, grazie al patto territoriale (che gli ha permesso di assumere venti persone in più), un sistema di costruzione dei serbatoi a spirale, che fa risparmiare tempo e una parte di lavorazioni nocive.
Dice: «L’Italia è stretta e lunga. Per portare un serbatoio a Bolzano ci metto 7-8 giorni. A un’impresa di Bologna, ne bastano uno o due. Col Ponte? Guadagnerei un giorno. Piuttosto, dateci più traghetti».

In almeno un caso, la posizione geografica favorisce un impianto del Sud, invece di penalizzarlo.
Il nome di Gioia Tauro stava per Quinto Centro Siderurgico (mai fatto), poi per una altrettanto ipotetica centrale a carbone.
Oggi, è il primo scalo di container del Mediterraneo.

Dice Giuseppe Guacci, presidente dell’autorità portuale: «Nonostante la crisi, il volume del traffico da noi è aumentato del 16%. A fine anno, saremo vicini a 3 milioni di ''teus''». Il ''teu'' è l’unità di volume usata nel movimento di container.
Genova, attualmente, è sul milione e mezzo di ''teus''.

La Calabria è esattamente a metà della rotta delle grandi navi da Suez a Gibilterra.
Che hanno convenienza a fare qui, e non nello scalo ligure, il ''transhipment'': dalle unità più grandi i container vengono trasferiti a terra e poi smistati su scafi più piccoli, che li trasferiranno negli altri porti d’Italia. E qui è il limite di Gioia Tauro.

Perché la merce potrebbe anche viaggiare via terra.
Ma autostrada e ferrovia si fermano a poche centinaia di metri dal porto. Guacci è fiducioso: lo scalo è incluso nelle opere strategiche della Legge Obiettivo, gli accordi con Anas e ferrovie sono già stipulati.

Si infiamma, il presidente dell’autorità portuale, nel predire un grande futuro a Gioia Tauro: «E quale altro porto italiano può vantare un retroterra, libero, di 800 ettari?».
Adesso, però, la sfida è la realizzazione di una seconda entrata nel bacino (costo: cento milioni di euro), che consentirà di dimezzare i tempi delle operazioni.

A Gioia Tauro lavorano 1800 persone, più altre mille nell’indotto. Giovani operatori manovrano le 22 altissime gru. A tempo di record, è stata formata una manodopera specializzata, in una terra che conosceva altri mestieri.

E’ stato possibile grazie al contratto d’area (firmato da Cisle Uil, non dalla Cgil, che però ha approvato il più ampio patto territoriale della zona), che ha garantito flessibilità. Il Patto territoriale è stato finanziato con 200 miliardi di lire, interamente impiegati.
Nell’insieme, una storia di successo.

Ma il porto, blindato e supersorvegliato, è una specie di isola di efficienza in un territorio ad alta pressione mafiosa. Poche aziende hanno sfruttato finora le potenzialità del grande retroterra.
Nel quale si inciampa in un inquietante ''memento'': i capannoni, ancora intatti, della Isotta Fraschini, il glorioso marchio di auto che lo Stato tentò di far risorgere con 120 miliardi di lire. Dovevano lavorarci 240 operai, poi 500.

Dentro i capannoni vuoti oggi ci sono le carrozzerie in vetro resina di due regine della strada mai finite e un grande silenzio.
Dell’Isotta, ha visto la luce soltanto la mascherina del radiatore.

Alessandro Di Lellis
Webgiornale.de

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05 febbraio 2003
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