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La strage del treno di Natale

25 anni fa, il 23 dicembre del 1984, si consumò la prima strage di stampo ''terroristico-mafioso''

22 dicembre 2009

La prima strage di "terrorismo mafioso", prima che Cosa Nostra scatenasse la sua guerra contro lo Stato dentro e fuori dalla Sicilia nel 1992-93, si consumò tanti anni fa, per l'esattezza 25 anni fa. Una strage dimenticata, da molti addirittura sconosciuta: è la strage del treno 904, il rapido Napoli-Milano - conosciuta anche come la "strage del treno di Natale" - che la sera di domenica 23 dicembre 1984, alle 19,08, venne squarciato da un'esplosione mentre percorreva la galleria dell'Appennino fra Vernio (Prato) e S. Benedetto Val di Sambro (Bologna). Morirono sedici persone e 266 rimasero ferite.
"Anche ora che le stragi mafiose del 1993 fra Roma, Firenze e Milano sono state al centro del dibattito pubblico - spiega Pier Luigi Vigna, ex procuratore nazionale antimafia, che a Firenze condusse le indagini sulla strage - ci si dimentica che con l' attentato al 904 per la prima volta la mafia aveva agito in maniera così sanguinosa fuori dal proprio territorio". È un legame che solo le varie associazioni delle vittime di stragi sottolineano quando possono (www.stragetreno904.it).

Il contesto in cui maturò la decisione stragista, spiega Vigna, era dominato dall'offensiva contro Cosa Nostra scatenata da magistratura e forze dell'ordine dopo le confessioni di Tommaso Buscetta. La scelta del tipo di azione (esplosivo su un treno) e del luogo - la stessa galleria in cui il 4 agosto 1974 era stato compiuto l'attentato al treno Italicus (12 morti e 48 feriti) - sarebbe stata dettata dal tentativo di rilanciare l'immagine del terrorismo come l'unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato.
Fu Pippo Calò, secondo la definitiva ricostruzione giudiziaria, il cervello della strage. "Boss" della famiglia mafiosa palermitana di Porta Nuova, Calò faceva parte della Commissione di Cosa Nostra e rappresentava un suo importante terminale a Roma, dove, con lo pseudonimo di Mario Aglialoro, aveva operato tranquillamente nel campo immobiliare e nel riciclaggio di denaro per conto di molte famiglie mafiose, intrecciando rapporti stretti con la Banda della Magliana. Almeno fino alle prime rivelazioni di Buscetta (estate '84). Di qui, per Vigna, la decisione di una grossa azione di stile terroristico, per allentare la pressione sulla mafia e "dimostrare che il grande pericolo continuava a venire dall'eversione e dal terrorismo".
La pista mafiosa nelle indagini sulla strage (radicate a Firenze perché una testimone raccontò di aver visto sistemare l'ordigno mentre il 904 era fermo alla stazione di Firenze) si era intrecciata con quella che aveva portato ad ambienti e personaggi della camorra napoletana, in particolare alla banda che faceva capo a Giuseppe Misso, boss del Rione Sanità, e che aveva investito anche l'ex parlamentare missino Massimo Abbatangelo, inizialmente condannato all' ergastolo per la strage, come Misso e due suoi uomini, Giulio Pirozzi e Alfonso Galeota, ma poi assolto dall'accusa più grave e ritenuto responsabile, come gli altri del gruppo napoletano, solo di detenzione e porto dell'esplosivo della strage. Si trattava di candelotti di dinamite che, per l'accusa, sarebbero poi stati utilizzati, insieme a Semtex H scoperto in un nascondiglio di un cascinale a Poggio San Lorenzo (Rieti) che faceva capo a Calò, per fabbricare l'ordigno che squarciò il 904.
Le sentenze della Cassazione (che hanno portato alla condanna all'ergastolo per strage di Pippo Calò e del suo braccio destro Guido Cercola e a 22 anni per il tedesco Friedrich Schaudinn, che avrebbe fornito l'innesco) hanno lasciato ampie zone d'ombra, ritiene Vigna. Soprattutto per quanto riguarda la pista napoletana. L'ex poliziotto Carmine Esposito che qualche giorno prima della strage aveva ventilato, senza essere creduto, la possibilità di un attentato a un treno era stato condannato a 4 anni di reclusione per favoreggiamento. "Ma favoreggiamento di chi", chiede Vigna, se Misso e i suoi uomini sono stati assolti dal reato di strage? [La Siciliaweb.it]

LA STRAGE DEL TRENO DI NATALE (informazioni tratte da Wikipedia)
La Strage del Rapido 904, o Strage del Treno di Natale, avvenne il 23 dicembre 1984 presso la galleria di San Benedetto Val di Sambro, ai danni del treno rapido n.904 proveniente da Napoli e diretto a Milano. L'attentato si consumò nei pressi del punto in cui poco più di dieci anni prima era avvenuta la Strage dell'Italicus. L'attentato del 904 fu di fatto l'ultima azione sanguinaria del periodo dell'eversione terroristica, ma per le modalità organizzative ed esecutive, e per i personaggi coinvolti, è stato indicato dalla Commissione Parlamentare sul Terrorismo come il punto di collegamento tra gli anni di piombo e l'epoca della guerra di Mafia dei primi anni novanta del XX secolo.

L'attentato venne compiuto domenica 23 dicembre 1984, nel fine settimana precedente le feste natalizie. Il treno era pieno di viaggiatori che ritornavano a casa o andavano in visita a parenti per le festività.
Il rapido Napoli-Milano intorno alle 19.08 fu colpito da un'esplosione violentissima mentre percorreva la direttissima in direzione nord, a circa 8 chilometri all'interno del tunnel della Grande Galleria dell'Appennino (18 km), in località Vernio, dove la ferrovia procede diritta e la velocità supera i 150 km/h. La detonazione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata, posta su una griglia portabagagli del corridoio della 9ª carrozza di II classe, a centro convoglio: l'ordigno era stato collocato sul treno durante la sosta alla Stazione di Firenze Santa Maria Novella.
Al contrario del caso dell'Italicus, questa volta gli attentatori attesero che il veicolo penetrasse nel tunnel, per massimizzare l'effetto della detonazione: lo scoppio, avvenuto a quasi metà della galleria, provocò un violento spostamento d'aria che frantumò tutti i finestrini e le porte. L'esplosione causò 15 morti e 267 feriti. In seguito, i morti sarebbero saliti a 16 per le conseguenze dei traumi.
Venne attivato il freno di emergenza, e il treno si fermò a circa 8 chilometri dall'ingresso sud e 10 da quello nord. I passeggeri erano spaventati, e a questo si affiancava il freddo dell'inverno appenninico. Il controllore Gian Claudio Bianconcini, al suo ultimo viaggio in servizio, chiamò i soccorsi da un telefono di servizio presente in galleria e sopravvisse all'esplosione. Bianconcini, sebbene anch'egli ferito da alcune schegge nella nuca, organizzò anche i primi soccorsi con l'aiuto di altri passeggeri, nonostante il freddo e il buio, dato che i neon di emergenza della galleria, isolata elettricamente, avevano poca autonomia.

I soccorsi ebbero difficoltà ad arrivare, dato che l'esplosione aveva danneggiato la linea elettrica e parte della tratta era isolata, inoltre il fumo dell'esplosione bloccava l'accesso dall'ingresso sud dove si erano concentrati inizialmente i soccorsi, per cui ci impiegarono oltre un'ora e mezza. I primi veicoli di servizio arrivarono tra le venti e trenta e le ventuno: non sapevano cosa fosse successo, non avevano un contatto radio con il veicolo fermo e non disponevano di un ponte radio con le centrali operative periferiche o quella di Bologna. Venne impiegata una locomotiva diesel-elettrica, guidata a vista nel tunnel, che fu per prima cosa usata per agganciare le carrozze di testa rimaste intatte, su cui furono caricati i feriti. Un solo dottore era stato assegnato alla spedizione. Con l'aiuto della macchina di soccorso i feriti vennero portati alla stazione di San Benedetto Val di Sambro, seguiti subito dopo dagli altri passeggeri. L'uso della motrice diesel però rese l'aria del tunnel irrespirabile, per cui servirono bombole di ossigeno per i passeggeri in attesa di soccorsi.
Uno dei feriti, una donna, venne trovata in stato di choc in una nicchia della galleria, e fu portata a braccia fino alla stazione di Ca' di Landino.
Arrivati alla stazione di San Benedetto, ai feriti vennero offerte le prime cure, e quelli più gravi furono portati a Bologna da una quindicina di ambulanze predisposte per il compito, che viaggiavano scortate da polizia e carabinieri. Le cure ai feriti leggeri durarono fino alle cinque di mattina. Per ultimi furono trasportati i morti: fortunatamente la neve cominciò a cadere solo durante questa ultima fase.
Il piano di emergenza era frutto delle misure predisposte dopo la Strage del 2 agosto 1980, e questa operazione fu la prima sperimentazione del sistema centralizzato di gestione emergenze costituito a Bologna.
Nonostante le condizioni ambientali estremamente avverse, l'opera di soccorso e l'operato dei soccorritori furono ammirevoli per l'efficienza dimostrata, tanto che poco dopo il servizio centralizzato di Bologna Soccorso sarebbe diventato il primo nucleo attivo del servizio di emergenza 118.

La Procura della Repubblica di Bologna predispose una perizia chimico-balistica per capire le dinamiche dell'esplosione e il materiale utilizzato. Emerse che un testimone aveva visto una persona sistemare due borsoni in quel punto presso la stazione di Firenze, per cui l'inchiesta fu trasmessa alla Procura della Repubblica di Firenze.
Nel marzo 1985 a Roma vennero arrestati per altri reati (traffico di stupefacenti e altro) Guido Cercola e il pregiudicato Giuseppe Calò, detto "Pippo", noto como il "banchiere della mafia" (nella foto). L'11 maggio seguente venne identificato il covo dei due arrestati in un edificio rustico presso Poggio San Lorenzo di Rieti: nella perquisizione venne rinvenuta una valigia, nascosta in cantina, che conteneva due valigette più piccole che contenevano a loro volta un apparato ricetrasmittente, delle batterie, alcuni apparecchi radio, antenne, cavi, armi ed esplosivi. Le perizie condotte prima a Roma e poi a Firenze dimostrarono come quel tipo di materiale fosse compatibile con quello usato nell'attentato al treno: anche l'esplosivo era del medesimo tipo, con la stessa composizione chimica.
Il 9 gennaio 1986 il Pubblico Ministero Pierluigi Vigna imputa formalmente la strage a Calò e a Cercola: sarebbe stata compiuta "... con lo scopo pratico di distogliere l'attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l'immagine del terrorismo come l'unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato".
Emersero dei rapporti tra Cercola e un tedesco, Friedrich Schaudinn, che sarebbe stato incaricato di produrre alcuni dispositivi elettronici da usarsi per attentati. Questi vennero trovati in casa di Pippo Calò.
Vennero a galla diverse linee di collegamento tra Calò, mafia, camorra napoletana, gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e persino con la Banda della Magliana: questi rapporti vennero esplicitati da diversi personaggi vicini a questi ambienti, tra cui Cristiano e Valerio Fioravanti, Massimo Carminati e Walter Sordi. Le deposizioni che spiegavano i legami tra questi tre ambienti della criminalità emersero al maxiprocesso dell'8 novembre 1985, di fronte al giudice istruttore Giovanni Falcone.
La Corte di Assise di Firenze il 25 febbraio 1989, comminò la pena dell'ergastolo per Pippo Calò, per Cercola e per altri personaggi legati ai due (Alfonso Galeota, Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso, boss della Camorra detto Il Boss del Rione Sanità), con l'accusa di strage. Inoltre, decretò 28 anni di detenzione per Franco Di Agostino e 25 per Schaudinn, più una serie di altre pene a altri personaggi emersi dall'inchiesta, per il reato di banda armata.
Il secondo grado venne celebrato dalla Corte di Assise di Appello di Firenze, con sentenza emessa il 15 marzo 1990 da una commissione presieduta dal giudice Giulio Catelani. Le condanne all'ergastolo per Calò e Cercola vennero confermate, e anche Di Agostino si vide la pena commutata in ergastolo. Misso, Pirozzi e Galeota vennero invece assolti per il reato di strage, ma condannati per detenzione illecita di esplosivo. Il tedesco Schaudinn venne invece assolto dal reato di banda armata, ma rimase incolpato della strage e condannato a 22 anni.
Il 5 marzo 1991 la 1a sezione della Corte di Cassazione presieduta dal discusso giudice Corrado Carnevale annullò la sentenza di appello. Il sostituto Procuratore generale Antonino Scopelliti era contrario e mise in guardia i giudici dal far prevalere l'impunità del crimine. Carnevale rinviò comunque di nuovo a giudizio gli imputati presso un'altra sezione della Corte d'Assise di Firenze. Quest'ultima il 14 marzo 1992 confermò gli ergastoli per Calò e Cercola, condannò Di Agostino a 24 anni e Schaudinn a 22. In compenso, Misso si vide la condanna commutata a tre soli anni per detenzione di esplosivo, mentre le condanne di Galeota e Pirozzi vennero ridotte a un anno e sei mesi: tutti e tre vennero assolti dai reati di strage.
Quello stesso giorno, Galeota e Pirozzi, insieme alla moglie Rita Casolaro ed alla moglie di Giuseppe Misso, Assunta Sarno, stavano ritornando a Napoli quando, durante il viaggio, incorsero in un agguato: la loro auto fu speronata e mandata fuori strada da alcuni killer della camorra che li seguivano sull'autostrada A1, all'altezza del casello di Afragola/Acerra, alle porte di Napoli. Le armi da fuoco dei killer lasciarono sul terreno Galeota e la Sarno, quest'ultima addirittura con un colpo di pistola in bocca. Soltanto Giulio Pirozzi e sua moglie riuscirono miracolosamente a uscire vivi da quella che fu una vera e propria esecuzione di camorra.

La 5a sezione penale della Cassazione il 24 novembre 1992 confermò la sentenza, riconoscendo la "matrice terroristica mafiosa". Il 18 febbraio 1994 la Corte di Assise di Appello di Firenze concluse il giudizio anche per il parlamentare dell'MSI Massimo Abbatangelo, la cui posizione era stata stralciata dal processo principale. Abbatangelo fu assolto dal reato di strage, ma venne condannato a sei anni di reclusione per aver consegnato dell'esplosivo a Giuseppe Misso, nella primavera del 1984. Le famiglie delle vittime fecero ricorso in Cassazione contro quest'ultima sentenza, ma persero e dovettero rifondere le spese processuali.
Guido Cercola si è suicidato in carcere a Sulmona il 3 gennaio 2005, soffocandosi con dei lacci di scarpe. Rinvenuto agonizzante in cella , morì durante il trasporto in ospedale.

 

 

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22 dicembre 2009
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