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La trattativa Stato-mafia entra formalmente nel processo Mori

Secono l'accusa l'ex generale dei carabinieri sarebbe stato uno dei protagonisti del "dialogo" tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni

12 novembre 2011

La trattativa tra mafia e Stato è entrata formalmente nel processo all'ex generale dei carabinieri Mario Mori. Il procuratore aggiunto della Dda di Palermo Antonio Ingroia e il sostituto Nino Di Matteo hanno infatti contestato nuove aggravanti all'ex generale Mori e al colonnello Mauro Obinu, attualmente accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Dal 2007 i due ufficiali sono infatti sotto processo a Palermo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso (Palermo) nell'ottobre del 1995.
L'accordo tra Cosa nostra e Stato in nome del quale Mori e il suo coimputato avrebbero fatto fuggire Provenzano, è stato finora lo scenario mai esplicitato di tutto il processo al generale. Sulla cosiddetta trattativa, come già emerso, la procura ha aperto un'inchiesta a carico dello stesso Mori e del suo braccio destro Giuseppe De Donno per attentato a corpo politico dello Stato, e di boss come Totò Riina, Bernardo Provenzano e Antonino Cinà e di altri soggetti – i cui nomi sono tuttora coperti da segreto – accusati di concorso in associazione mafiosa. Oggi, però, quella che sinora è stata un'ipotesi investigativa, è diventata un'ulteriore accusa dibattimentale.

Ieri, i giudici palermitani hanno contestato a Mori di non aver arrestato Provenzano "per assicurare a sé e ad altri il prodotto dei reati di cui agli articoli 338, 339, 110 e 416 bis, per i quali si procede separatamente, così in esecuzione dell'accordo che, in cambio della cessazione della strategia stragista di cosa nostra, prevedeva la concezione di benefici di varia natura alla medesima organizzazione criminale e il protrarsi della latitanza di Provenzano, garante mafioso del predetto accordo". In pratica il procedimento è stato incrociato con l'indagine ancora in corso sulla trattativa.
A entrambi gli imputati i pm hanno anche contestato l'aggravante di avere commesso il fatto abusando dei poteri e violando i doveri relativi alla pubblica funzione che ricoprivano.

Nell'udienza di ieri i pm Ingroia e Di Matteo hanno poi chiesto di depositare nuovi atti istruttori. Tra questi, alcuni documenti della commissione parlamentare antimafia e i verbali con le dichiarazioni del magistrato catanese Sebastiano Ardita, ex capo del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Ardita – che sarà citato come teste dell'accusa – è l'autore del volume "Ricatto allo Stato" in cui ha raccontato alcuni episodi inquietanti di cui è venuto a conoscenza durante il suo periodo alla guida del Dap. Come quando nel 1993 fu sospeso il regime di 41 bis a 334 detenuti, tra i quali molti affiliati a Cosa Nostra, nonostante il parere contrario di magistrati e investigatori impegnati sul fronte antimafia. L'allora ministro Giovanni Conso ha riferito in commissione antimafia di aver ordinato lui stesso la sospensione di massa del carcere duro per cercare di frenare la minaccia delle stragi.

Ingroia e Di Matteo hanno inoltre consegnato alla Corte, presieduta dal giudice Mario Fontana, le dichiarazioni di Agnese Piraino Leto, moglie del giudice Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992 nella strage di via d'Amelio. Nel settembre del 2009 e nel gennaio del 2010 infatti la vedova ha raccontato ai giudici della procura di Caltanissetta alcune confidenze fattele dal marito. Nel giugno del 1992 Borsellino le raccontò dell'esistenza di colloqui in corso tra Cosa Nostra e alcuni pezzi dello Stato. Circostanza questa che accrediterebbe l'ipotesi degli inquirenti di una vera e propria trattativa con la mafia per far cessare le stragi già nel 1992. Ipotesi che da oggi diventa un vero e proprio elemento del dibattimento.
L'udienza è stata rinviata al prossimo 9 dicembre per sentire il parere della difesa del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, entrambi assenti in quest'ultima udienza.

La testimonianza di Sebastiano Ardita - La singolare nomina a vicecapo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria di Francesco Di Maggio, le manovre, passate anche attraverso la divulgazione di menzogne per mezzo della stampa, per tentare di condizionare la destinazione carceraria del boss Bernardo Provenzano e l'analisi dei documenti relativi alle revoche dei 41 bis ad alcuni mafiosi: sono i punti centrali della testimonianza resa ai pm di Palermo dal magistrato Sebastiano Ardita, dirigente del Dap dal 2002. I verbali con le dichiarazioni di Ardita, sentito nell'ambito dell'indagine sulla trattativa tra Stato e mafia, sono stati depositati agli atti del processo al generale di carabinieri Mario Mori che, secondo l'accusa, sarebbe stato uno dei protagonisti del "dialogo" tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni.
Ai magistrati, Ardita ha raccontato dell'anomala nomina a vicecapo del dap, dopo la rimozione dei vecchi vertici guidati da Nicolò Amato, di Francesco Di Maggio. Per ovviare al fatto che non aveva i titoli richiesti dalla legge fu fatto un decreto presidenziale ad hoc, a firma dell'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, che lo nominava dirigente generale dello Stato consentendogli di diventare il numero due del Dipartimento.
Sotto la direzione di Di Maggio, allora retto da Adalberto Capriotti, a novembre del '93, vennero revocati 334 provvedimenti di 41 bis. Ardita ha aiutato i pm a ricostruire la documentazione interna del Dipartimento da cui emerge che la volontà di non rinnovare il carcere duro ai 334 mafiosi fu espressa in una sorta di istruttoria interna del Dap ancor prima di richiedere il parere delle forze di polizia.
Infine il magistrato ha parlato di un'esperienza da lui vissuta nel 2006, dopo la cattura di Provenzano: al magistrato arrivarono voci su presunte dichiarazioni del figlio del boss Riina che, sapendo dell'arrivo del capomafia nel suo stesso istituto di pena di Terni, si sarebbe lamentato dandogli dello "sbirro" e alludendo così al suo ruolo nella cattura del padre. Voci false che, secondo una pista investigativa, erano finalizzate a far trasferire Provenzano in un altro carcere per far sì che questi potesse avere contatti col boss Piddu Madonia. Il tentativo fallì ma anche la stampa diffuse la notizia degli insulti di Riina.
Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo e teste della trattativa, rivelò di aver dato la notizia ai giornali dopo averla appresa da un uomo dei Servizi. Segno di un reale tentativo di manovrare la destinazione carceraria del padrino.

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, Il Fatto Quotidiano, ANSA, Lasiciliaweb.it]

 

 

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12 novembre 2011
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