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La versione di Barney

Dal "caso letterario" scatenato da Mordecai Richler una pellicola interessante con un grande Paul Giamatti

11 gennaio 2011

Noi vi consigliamo...
LA VERSIONE DI BARNEY
di Richard J. Lewis

Il 70enne ebreo canadese Barney Panofsky, cinico, alcolista, fumatore incallito, impulsivo, irascibile e politicamente scorretto, decide di scrivere la sua personale 'versione' dei fatti riguardanti le sue memorie e soprattutto sulla morte dell'amico Bernard "Boogie" Moscovitch, di cui a suo tempo era stato accusato. Dal bestseller di Mordecai Richler.

Anno 2010
Tit. Orig. Barney's Version
Nazione Canada, Italia
Produzione Domenico Procacci, Lyse Lafontaine, Ari Lantos, Robert Lantos per Fandango, Serendipity Point Films, The Harold Greenberg Fund
Distribuzione Medusa
Durata 132'
Regia Richard J. Lewis
Tratto dal romanzo omonimo di Mordecai Richler (Ed. Adelphi)
Sceneggiatura Michael Konyves
Con Paul Giamatti, Dustin Hoffman, Rosamund Pike, Minnie Driver, Rachelle Lefevre, Bruce Greenwood, Scott Speedman
Musiche Pasquale Catalano
Genere Drammatico


In collaborazione con Filmtrailer.com

La critica
"Si sa che i barneyiani, come pure i richleristi, sono, soprattutto in Italia, una moltitudine agguerrita, fedele sino alla devozione, assimilabile alla casta dei samurai se non dei ronin. Quando nel 2000 fu pubblicato da noi La versione di Barney dell'ebreo canadese Mordecai Richler (da Adelphi, oggi alla decima edizione), dilagò un vero e proprio culto che travolse i lettori, trasformandoli in una specie di setta, tanto che si finì col definire «improprio» l'uso troppo entusiasta cui veniva sottoposto il libro. Fu forse l'ultimo romanzo di tempi ancora intelligenti, che suscitò discussioni, che distrusse amicizie, che fomentò polemiche di tipo letterario e non riguardanti i più modesti bersagli odierni. Si può immaginare quindi con quanta curiosità, ansia, diffidenza e sfiducia, era atteso il film che alcuni temerari, pronti a ogni ardimento, hanno coraggiosamente tratto dal venerato romanzo; tra cui il produttore italiano Domenico Procacci, la distribuzione Medusa, il regista (soprattutto televisivo) Richard J. Lewis, ma anche l'attore Paul Giamatti (Sideways), che ha accettato un'impresa quasi impossibile: incarnare l'eroe qualsiasi dalla vita straordinaria, l'ebreo figlio di poliziotto (che qui è un Dustin Hoffman di affettuosa e imperiosa volgarità), nato alla periferia di Montreal, che ha deciso di raggiungere il successo nascondendosi nell¿insincerità. E praticando la scorrettezza. Arrogante e fortunato boss della Totally Uncorrect Production di orride soap televisive, accolto con sospetto dalla ricca comunità israelita, tre mogli perdute, anche la Miriam amata e voluta a tutti i costi, ubriacone, sospettato dell'omicidio di un amico e perseguitato da un detective, sarà alla fine troppo tardi per sfuggire ai sensi di colpa e per cambiare. Venezia li ha premiati con tanto entusiasmo e quasi dieci minuti di applausi. Chiariamo: Giamatti, grassoccio, spelacchiato, barbuto, occhi spalancati, spalle cascanti, è un bravissimo Barney. Ma ogni barneyfilo si è fatto un'idea sua dell'aspetto del suo idolo, magari clone di se stesso. Quindi come lo prenderà?

Quanto al film, se uno sta lì a evocare tutte le scene che gli son sembrate sublimi nel libro e che mancano sullo schermo, diciamo centinaia, si troverà malissimo, eleverà proteste, chiederà risarcimenti. Se invece avrà l'acume e la saggezza di accettare che un film è un film, cosa del tutto diversa, talvolta peggio, talvolta meglio, di un libro, potrà anche divertirsi: avvantaggiati quindi, i tanto disprezzati non lettori di Richler. Tra cui forse si possono annoverare i giovani di AgiScuola che gli hanno già assegnato il Leoncino d'oro con parole appassionate. Sbiadito, imbuonito, corretto, tipico film per famiglie, è molto debole nella parte di Barney giovane (con Giamatti lisciato e imparruccato), spostata da Parigi a una Roma che come si sa nel cinema americano non viene mai bene, dove il protagonista sposa la prima signora Panofsky (Rachelle Lefevre) che suicidandosi lo lascia subito vedovo. Fa ridere nella già vista mille volte frenetica scena del matrimonio ebraico con la seconda noiosa, ricca, signora Panofsky (Minnie Driver) durante il quale s'innamora perdutamente di Miriam, che diventerà la sua intelligente, bella, elegante terza moglie (Rosamund Pike). Alla fine Giamatti fa sprofondare Barney nell'Alzheimer con lo stesso doloroso, muto sperdimento che nel romanzo è il figlio Michael (Jake Hoffman, figlio di Dustin) a raccontare, dopo che si è interrotta la versione scritta dal protagonista, con quelle parole sull'orlo del buio: «Ho alzato la cornetta, ho cominciato a… e poi mi sono fermato, imprecando. Come è più il numero di Miriam?». Nel gelo che precede la premiazione di questa sera, senza pronostici, senza attesa, senza batticuore, c'è una corrente (di pensiero o di mercato) che dà per possibile un solo premio, quello al miglior attore che dovrebbe andare appunto a Paul Giamatti, o ancor meglio a Barney Panofsky. Giamatti risulta bravo per due ragioni: è americano, è bruttino. Certo sarà bravo sul serio, ma è vero che i brutti sono in questo senso favoriti: anche da noi, se un tempo i bravi erano anche belli (Mastroianni, Gassman), oggi sono quasi sempre brutti. Mettono la loro faccia scavata, malinconica, tutta gonfiori e grinze, le loro borse sotto gli occhi e le loro palpebre pesanti, al servizio del regista e zac, il tutto li fa grandi attori. Quanto all'essere americano, per loro forse è obbligatorio andare a scuola di recitazione, imparare, recitando, a sembrare naturali. I nostri attori, per fare realtà, parlano come mangiano, non recitano, e il risultato è che sembrano recitare, però male. Quanto al Leone d'Oro, dicono che il presidente della giuria Tarantino abbia sussurrato a un'amica: «State pronti, perché la nostra scelta vi sorprenderà!»".
Natalia Aspesi, 'la Repubblica'

"Barney’s version è un film pieno di vita, con dialoghi fulminanti, situazioni paradossali, case vissute e piene di atmosfera e tanta buona musica."
Maurizio Caverzan, 'il Giornale'

"Possiamo tirare un sospiro di sollievo. Il film tratto dalla Versione di Barney è bello. Soprattutto è fedele al romanzo. Manca qualche dettaglio, come era ovvio, ma c'è la sua essenza, il suo spirito, la sua grandezza (...)"
Christian Rocca, 'Il Sole 24 Ore'

"A nulla vale la performance di Paul Giamatti, che infonde più che può una doppia anima a Barney (...) Il film si avvia al polpettone sentimentale con l'ex cattivo piagnucoloso, affranto dall'abbandono dell'amata, dopo anni di convivenza, figli grandi e un inizio di alzheimer. (...) Lo sguardo pesante di Lewis impasta lo schermo e spegne ogni commozione."
Mariuccia Ciotta, 'il manifesto'

"Il migliore dei Barney possibili. Un sublime Paul Giamatti e un prezioso lavoro di sceneggiatura rendono "La versione di Barney" un film all'altezza dei nostri più sfacciati sogni panofskiani. (...) Chi ha letto Merdecai Richler ritrova nel film tutto quel che ci deve essere, smontato e magnificamente ricostruito. Chi non lo ha letto scopre nei primi cinque minuti del film un personaggio irresistibile ed esce dal cinema con le lacrime. (...)"
Mariarosa Mancuso, 'Il Foglio'

"La versione di Barney di Richard J. Lewis, convenzionale, non arriva a trasporre il romanzo di Mordecai Richler: lo spirito caustico, l’autoironia, a volte il cinismo del canadese Barney Panofski diventano una sorta di tristezza alcolica; le scene girate a Roma, considerata una città di bohemien, sono goffe e non credibili; l’amore della vita, Miriam è banalizzato. Sembra che i realizzatori facciano fatica ad accettare l’umorismo ebraico. (...)"
Lietta Tornabuoni, 'La Stampa'

Leoncino d'Oro AgiScuola alla 67ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (2010).

La vita agra secondo Richler, un best seller che è già cinema
di Francesco Merlo (Repubblica.it)

IL FILM è più bello perché il libro di Mordecai Richler è stato scritto per essere visto: era già una fantasia cinematografica. Ma il film 1 è più bello anche perché toglie il grasso ad un romanzo troppo lungo, ad un libro-vetrina più recensito che letto. Di sicuro Barney è tale e quale. Ma solo nel film, grazie alla faccia straordinariamente qualunque di Paul Giamatti, se ne capisce il successo. E ci voleva la dolente e disincantata maschera del vecchio Dustin Hoffman, ci voleva la trasformazione del "laureato" da figlio pasticcione a papà impasticciato per mostrare che la goffaggine, il sovrappeso, il turpiloquio, l'abuso di alcol e di fumo sono il comune disagio di vivere e non la cifra dell'eversione o dell'irrisione. E alzi la mano chi non si è sentito infelice durante quella grottesca fatica che è stato il giorno del suo matrimonio. Se come Barney non si è messo a inseguire un treno sbuffando e inciampando è solo perché nelle vere stazioni non ci sono treni per il cielo. Oggi nel destino di tutti ci sono divorzi e matrimoni e c'è purtroppo il metabolismo manomesso dei Panofsky, padre e figlio, quel perdere salute, ritegno e pudore che può essere giocato con aggressività o più spesso subito come pena.

Il papà di Barney muore in un bordello e Barney si spegne nella malattia che cancella il presente, e sono i
momenti più emozionanti del film perché i due grandi attori per quasi due ore si erano fatti amare per le debolezze esibite e perciò è facile identificarsi con i loro corpi sformati. Sulla panchina di fronte all'acqua e con in mano una banana, Barney è al tempo stesso un uomo e tutti gli uomini del mondo. E la bella musica romantica di Pasquale Catalano ci accompagna dentro la tentazione, da tutti più o meno coltivata, di uscire dalla vita come dal recinto di una clinica, di sparire il più discretamente possibile.

Anche la bellezza raccontata non regge il confronto con la bellezza reale dell'inglese Rosamund Pike che è bella come un assoluto poetico perché dà corpo e colori all'archetipo della moglie rara. Dunque al centro del manifesto del disincanto c'è la moglie-incanto. Con i lunghi capelli da eroina western, gli abiti raffinati, gli occhi chiari e il sorriso mediterraneo, la bravissima attrice del teatro inglese è l'amica, l'amante e la mamma che tutti gli uomini sognano di sposare, la principessa azzurra, uno sguardo aperto e dritto, una signora che sa camminare bene e mangiare bene ma con un'anima diafana come le fibre di un sensitivo o come le palpebre di un neonato. Miriam è il rigore severo nel libro spacciato come la summa della più rigorosa mancanza di rigore.

Dunque il film spazza via gli umori e i pregiudizi della simpatica campagna promozionale che in Italia fece a Barney il Foglio di Giuliano Ferrara accompagnando il successo dell'edizione Adelphi sino alle trecentomila copie. E mette fuori la leggerezza allegra accanto all'esibizione pesante delle spazzature umane perché ci sono, è vero, i colori sporchi e forti del vomito, del suicidio, del gocciolarsi sul pigiama e, ancora, del lavoro come arte di arrangiarsi, del talento buttato via nelle soap opera. Ma ci sono anche i colori chiari e candidi dell'amicizia, dell'amore, della pietà e della famiglia che nel film è un'atmosfera calda e vibrante di mormorii, musica, tintinnii di bicchieri. Anche l'ebraismo è una famiglia allargata, benché bersaglio di snervata autoironia. E sono davvero belle le scene dei pranzi sentimentali.
Sarebbe stato facile per il regista Richard Lewis indugiare su quell'erotismo animale che gli uomini brutti esercitano sulle donne belle. Invece è a tavola che i corpi si toccano e subito si allontano, come se esprimessero sentimenti e pudori, e ogni volta che i bicchieri si urtano lo spettatore ha l'impressione che tutto prenda vita, anche i cucchiai, anche le tovaglie bianche.

Non è più vero che film e libri sono cose diverse. E quelle battute a ripetizione alla Woody Allen sono letteratura-cinema. In Manzoni le battute sono solo quelle del senno di poi e la grammatica non è iconica. Oggi invece i grandi scrittori scrivono con gli occhi e per gli occhi. Ma la lettura è mentale e l'immagine è organica. E infatti alla fine quando in un ristorante francese Miriam gli nega l'amore e gli offre l'amicizia mangiando un gateau au chocolat non c'è prosa paragonabile a quello scurarsi delle pupille di Barney che vale un cielo stellato.

Anche la scorciatoia del turpiloquio non regge il confronto con il garbo di Miriam. Oggi il garbo è molto più politicamente scorretto della coprolalia perché siamo tanti banalissimi cani di Pavlov con quel "cazzo" e quel "merda" pronunziati ad ogni scossa. C'è nell'idea (sbagliata) che Barney sia il turpiloquio sventolato come una bandiera una delle ragioni del suo speciale successo in Italia, che è un paese pieno di raffinati intellettuali con le movenze e la lingua dei facchini. È il Paese di Berlusconi che si proclama timorato di Dio e bestemmia in pubblico, di D'Alema che in tv manda "a farsi fottere" un esponente del fish-wrap journalism, è il paese dove parlano sporco anche i grandi imprenditori, come risulta dalle intercettazioni. Non è il paese di Miriam, non è il paese della grammatica e della prosa di Mordecai Richler. Una volta molti giornalisti italiani pensavano di poter scrivere Per chi suona la campana bevendo e fumando. Oggi pensano di scrivere come Richler mitragliandoci di male parole.

C'è infine nel film una piccola furbizia paesana che guasta la pulizia di una trama che è persino thriller, ed è la sostituzione di Parigi con Roma per compiacere - ci pare - il coproduttore italiano e infilarci qualche pubblicità più o meno occulta (una riguarda un ristorante). Ma Parigi e Roma non sono intercambiabili neppure come stereotipi, sono quadri mentali che non si somigliano. A Roma si andava per cercare la classicità e la Lambretta, solo a Parigi pittori e scrittori allenavano il genio nella bohème. Nell'Italia di quegli anni i geni come Richler venivano invece soffocati dalla vita agra.

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11 gennaio 2011
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